Hagström I / Kent
by Jack Marchal
Lo stile di questa chitarra suggerisce reminescenze delle cucine anni 50 e le prime radio a transistor. Ma questo modello suona molto meglio di quanto il suo aspetto faccia trasparire. Leggerissima ma robusta e affidabile, è una meravigliosa chitarra economica, un miracolo di design applicato al taglio dei costi. Chiamatela Strato dei poveri se volete, ma le si addice di più l’appellativo di Danelectro europea. Stiamo parlando della Kent, meglio conosciuta come Hagström I.
Nel catalogo Hagström la Kent fu denominata come, Kent PB-24-G, Kent, semplicemente Hagström, poi ancora Kent PB-24-G, Kent e infine Hagström I; tutti nomi per un solo modello: Kent. Nell’ultimo periodo di produzione ebbe la decal Hagström I, nome dato anche alla versione a un pick-up della Hagström II. Ci deve essere stata un pò di confusione in casa Hagström per ciò che concerne il criterio della scelta dei nomi. Si aggiunga a ciò che i distributori stranieri usarono altri nomi, Le Kent furono vendute in Gran Bretagna Come Futurama e pubblicizzate in USA come F-11. (Naturalmente Kent fu anche un marchio Giapponese che non ha niente a che fare con gli svedesi).
Il corpo è formato da due strati di legno economico, forse pioppo, se non addirittura gli scarti dell’abete usati per i pallets. Il retro è ricoperto di vinile simil-pelle, soluzione già adottata da Höfner e Klira in germania per le loro solid body. Questa soluzione taglia le fasi di levigatura, verniciatura, asciugatura, lucidatura, risparmiando tempi e costi e riducendo al minimo le emissioni di sostanze volatili nocive. Il top è un guscio pressoffuso di plexiglass trasparente verniciato nella parte posteriore in due colori, con il bianco a simulare il battipenna con controlli e pick-up. Il coperchio di plexiglass è avvitato al corpo con sei viti. Spessore 35 mm (1.38″).
Contrariamente a ogni previsione, questo bizzarro schema costruttivo era sorprendentemente risonante anche da spenta grazie ai perni del ponte avvitati direttamente nel legno della cassa e alle caratteristiche sonore del plexiglass. ….
Il sustain decresce bruscamente dopo il 12mo tasto ma comunque è difficile avventurarsi nella parte alta del manico per la incerta intonazione del ponte. quest’ultimo è l’unico punto debole della Kent. Un pezzo di legno con due ferretti che non permettono altra regolazione dell’intonazione che la scelta tra due posizioni presettate. Troppo lunga per il Mi basso, corta per il La, lunga per il Re, etc, sembra una barzelletta; qualsiasi ponte inclinato sarebbe stato meglio. Molti hanno migliorato la loro Kent con ponte tune-o-matic in stile Gibson.
Un’altra limitazione della Kent è la sua difficoltà nella manutenzione. Si deve esplodere la chitarra intera per arrivare a pulire i contatti elettrici ed è necessario abbastanza spesso. Questo è uno degli aspetti più irritanti in una altrimenti meravigliosa chitarra.
I due pick-up single coil sono quelli generalmente montati sulla precedente serie Standard/Deluxe con i finti poli. Questi sono semplici inserti di metallo inerti senza nessun collegamento e funzione con il nucleo della bobina. Probabilmente si pensava che potessero meglio indirizzare il flusso di ogni singola corda. In realtà la loro funzione e puramente estetica e non si nota nessuna differenza in loro assenza.
Tra i pick-up è incollato un pezzo di alluminio stampato la cui funzione estetica è discutibile per quanto potrebbe essere un’efficiente grattugia per il formaggio. Le chiavette sono le Van Ghents aperte, le stesse delle prime Eko, con il bottone di plastica ovale. Dignitose e sufficientemente precise soprattutto se avete preso confidenza con la loro tendenza a lasciare un po’ di gioco. L’attaccacorde/tremolo Tremar completa la dotazione hardware.
Il suono ha qualcosa dell’inconfondibile sferragliare fenderiano, forse non cosi ricco armonicamente ma con qualcosa di più duro, un alone metallico. La definizione corda per corda non è eccezionale e le corde esterne suonano meno di quanto dovrebbero. Il Mi cantino è troppo debole. A dispetto dei suoi acuti il pezzo forte della Kent sono i medi: se vi piace il suono squillante e risonante con buone vibrazioni anni 60, amerete la Kent. (…)
La Kent dismostra una incredibile resistenza all’invecchiamento, i tasti subiscono poco lo stress e sembrano dare vita illimitata alla tastiera, il tek resiste all’umidità e alle abrasioni meglio di qualunque altro legno. Il corpo è stabile come se fosse compensato senza esserlo. Nessun graffio o botta sul retro in vinile (che invece tende a scollarsi dal bordo negli esemplari tenuti peggio), il plexiglass è proverbiale per resistenza ai graffi, ai raggi UV e alle intemperie. Viste da qualche metro molte Kent sembrano assolutamente nuove anche dopo un uso che avrebbe ridotto una Fender a un vero relitto.
D’altro canto l’hardware è incline alla corrosione, specie le viti che contraddicono la fama dell’acciaio svedese. Occhio anche a esporla al sole tanto sono sensibili i bottoni delle chiavette. I piroli attaccacinchia erano prima in plastica nera e poi sostituiti con un metallo sicuramente senza garazia a vita. La verniciatura del manico e della pìaletta tendeva all’economico, spesso si creano piccole bolle e il distacco di piccole scaglie che lasciano intravedere il divertente strato rosa del turapori.
Basata su un approccio che abbattese i costi in maniera intelligente, il rapporto qualità-prezzo della Kent era imbattibile se paragonata alla produzione Italiana e Tedesca. Furono costruite circa 25.000 Kent tra il 62 e il 67 facendone il più grande successo Europeo (La principale avversaria, la Höfner Galaxy, non raggiunse i 15.000 esemplari). Hagström non fu il più grande costruttore europeo ma grazie alla Kent era l’unica ad avere un ciclo produttivo standardizzato industriale mentre Eko, Framus e Höfner frammentavano la loro maggiore produzione in un dedalo di modelli in contrasto con l’ammirevole standardizzazione svedese.