Come sarebbe stato il passato se il futuro fosse accaduto prima
note su Wandré di Francesco Stella
Ho sempre pensato che le prime chitarre di Wandré sembrano nate da quel mondo legato all’estetica steam-punk narrata, tra gli altri, da Sterling e Gibson, autori di opere che si svolgevano in un Un mondo anacronistico – a volte una vera e propria ucronia – in cui armi e strumentazioni vengono azionate dalla forza motrice del vapore (steam in inglese) e l’energia elettrica torna a essere, come nella fantascienza ottocentesca, un elemento narrativo capace di ogni progresso e meraviglia (come sarà poi l’energia nucleare o le interpretazioni della meccanica quantistica nella fantascienza successiva); dove i computer sono completamente meccanici, o enormi apparati magnetici sono in grado di modificare l’orbita lunare. Un modo per descrivere l’atmosfera steampunk è riassunto nello slogan “come sarebbe stato il passato se il futuro fosse accaduto prima”. [Wiki]
È vicino a enormi computer a rulli di cera nei sotterranei di Parigi in epoca Napoleonica, che vedremo bene un ufficiale ussaro imbracciare la Selene attaccata a un amplificatore Tesla. Immersi in quel gotico gusto che accoppiava alluminio e passamaneria, fumo di candele e forme impossibili fino a quel momento per una chitarra. Deep cutaway estremi, come operati da una sciabola. Cornici di Padouk mutuate dagli archibugi. Plastica che non sembra ancora plastica. Una fantascienza d’altri tempi.
A conferma di questa mia intuizione giunge la notizia, incerta, che una delle primissime Wandré facesse capolino nel salone del Nautilus del Capitano Nemo collegata a un amplificatore prussiano, probabilmente un Krundaal. E naturalmente dischi volanti Ovali, contrabbassi in alluminio e ponti per chitarre sospesi. Chitarre smontabili come moschetti, parti intercambiabili come sulle automobili e le moto. E come nello steam-punk, nessun oggetto è seriale, ogni esemplare sembra unico, nell’apparente paradosso di utilizzare una catena di montaggio per produrre strumenti unici.
Purtroppo, per la storia della chitarra, e per Wandré stesso, l’utopica ucronìa non riguardava solo il design e le tecniche costruttive, ma anche e sopratutto le regole del mercato e della finanza di quegli anni.
A margine delle suggestioni anacronistiche, proviamo a dare una valutazione personale degli strumenti di Wandré e i miei criteri di collezione ideale. Per il periodo prima del 57 siamo nel campo delle reliquie e del museo.
Dal 57 al 60 nascono i capolavori di forma e funzione, ogni particolare del disegno e della realizzazione è libero e ardito. B.B., RnR, Oval, Waid e Selene devono sedere nella sala centrale. Sono i modelli che qualificano una Collezione di Wandré dall’avere delle Wandré. All’interno di questi modelli le diverse rifiniture possono fare la differenza sulla salute del mio stomaco e delle sue capacità digestive. Mi dispiace apparire gratuitamente contro-corrente ma non amo troppo le Wandré che ospitano dipinti. Sicuramente per la loro unicità sono le chitarre dal maggiore valore storico ed economico, da contendersi a suon di dollari per essere appese nella pinacoteca di casa. Eppure, perdonatemi, le trovo figlie di un gusto ancora provinciale se non rurale, oserei dire goliardico, senza quella consapevolezza che distingue il naïf dal concettuale. Più chitarre da balera e fattoria che innovazione e avanguardia. Pappagalli, Vesuvio, ed esotismi ottocenteschi. La chitarra elettrica avrebbe sovvertito quell’ordine costituito che quel gusto ancora incarnava. Da sempre allergico al figurativo, archivio la questione e vado avanti con buona pace degli adoranti.
Adoro invece le prime vernici, subito screpolate, dense e materiche, più simili a Rauschenberg che a Ligabue. Per dire, non tollero spray e colori, né candele di fumo su una BB, troppo elegante per andar vestita come la Zanicchi. Ma non riuscirei a immaginare una Oval che sia meno che psichedelica. Se la devo dire tutta tra le mie rifiniture preferite, su una Wandré, ci sono quelle con le scaglie dorate sparse sulla vernice. Un perlinato autarchico, champagne purissimo. Un cielo stellato di sfondo all’era spaziale.
I contrabbassi elettrici li metterei tutti nella ideale collezione dei capolavori. Il meno riuscito sembra il Vikingh, accenna alle corna ma allude salacemente al corpo femminile, un’ostentata bizzarria lontana dalle geometrie purissime dello Sweden e dei Blitz. I contrabbassi sono gli strumenti dove la ierogamia tra Legno e Alluminio è stata più feconda. Il Naïka non mi è mai stato simpatico con quel suo sapore da rockabilly padano e passo oltre. Amen.
Dal 60 in poi salverò poco. Non la Bikini, progetto assurdo, senza grazia e senza funzione, poco lungimirante. Non la Doris, non la Roby, la Soloist, la Twist. Tutte chitarre senza una personalità esteriore, senza quel carattere tipico di Wandré. (Con la Spazial abbiamo un modello che invece amo. È forse il solo modello su cui stanno bene le decorazioni con il fumo di candela.)
Eppure… Dietro queste forme, tristi copie di disegni americani, rivestite da ancora più tristi piani di formica, si nasconde l’intuizione segreta di Wandré designer di chitarre del futuro. Il sistema di manico passante in alluminio ci racconta di un Wandré che consapevolmente crea un sistema modulare di chitarra costituita da una fusoliera centrale standard (come l’attuale pianale delle autovetture moderne comuni a più modelli) da accoppiare alle ali che danno la forma alla chitarra e che nelle intenzioni di Wandré potevano (e dovevano) dare vita a infiniti modelli e infinite colorazioni e finiture. In questo senso nel salone centrale della collezione porterei gli esemplari rarissimi di copie Eko che Wandré fece a un amico. Testimonianza che la forma esterna non conta, era possibile creare n chitarre da una sola struttura data. Poco importa se personalizzate in Fabbrica secondo l’estro dell’operaio o sui gusti del cliente.
Qui abbiamo, per dirla con Perec e Queneau, un mirabolante caso di plagiat par anticipation che vede il nostro Wandré essere copiato da Les Paul vent’anni prima con il suo Log. Così come fecero i Rolling Stones con il loro plagio anticipato di I can get no satisfaction dei Devo.
Dovrei dire qualcosa della Rock, la chitarra scultura. Sospendo invece il giudizio. Apparirebbe snob muoverle qualche critica. Preferisco pensare che sia una dimostrazione della bontà del tri-alu-neck. Vorrei ridimensionare gli entusiasti ma devo ammettere che è un modello che ha un suo perché all’interno della Collezione. E già che mi trovo sui sentieri dell’iconoclastia, liquidiamo la Scarabeo come eccentricità da anni 70. Fu nella gamma di Wandré quello che fu la x1/9 per la Fiat. Ovvio che non manca di avere estimatori ma solo quelli che fanno corrispondere la bellezza di un’opera al suo valore sul mercato. Farei ancora follie per una BB, meno per la Scarabeo. Il libro del Ballestri, infine, ha sottratto la paternità del disegno al Pioli, e me ne rallegro.
Apprezzabile la Polyphon, se non altro per aver ripreso le forme della BB e aver dato dignità a quelle bottoniere a metà tra un mangiacassette e un centralino telefonico. È un modello su cui sta bene sia la formica che la celluloide. Bella anche la Power-Tone, la cugina ricca delle prime Crucianelli e come questa ancora fresca e originale.
Etrurian, Tigre, Cobra, Mini e Psychedelic Sound, non riescono a muovermi l’anima. Hanno scritto in faccia la crisi di Wandré e mettono un po’ di tristezza.
© Francesco Stella, Articolo apparso nel Maggio 2014 sulla rivista di studi olandesi Dystopische Gitaren Tijdschrift
Francesco Stella è fotografo amatoriale e collezionista di Wandré da più di quindici anni. Sono sue tutte le foto di Wandré non pubblicate su questo sito. Nato nel 1965 ha solo 53 anni quando nell’ottobre 2019 il Messico attacca Napoli. Intervengono in nostro aiuto L’America e la Spagna. È la guerra. Stella trova lavoro come soubrette a Roma. I tempi sono duri. Manca lo zinco. Il conflitto dura settantadue ore e vede, come sappiamo, vincitore il Messico cui vanno Napoli, Siponto (FG) e un’isola a scelta tra Sicilia e Sardegna. L’Itaglia esulta, perché vede finalmente risolto il problema del terremoto (quello del 1980). È il momento della ricostruzione.
Cosa succede, poi, è storia di campagna. Il caporalmaggiore D’Angelo (collaboratore di Stella Ndr) non smette di istruirsi sugli usi e costumi del popolo che li ospita, in odore di business. Tana le storie, segue i processi, studia le erbe, approfondisce il gergo, prova a diffidare di questo e di quello e trova la sua strada. (© Paz)